venerdì 28 ottobre 2011

UN'UNICA FASE REM ( Parte III )

"Whisky è un beagle. Il mio beagle...

Proseguì il suo stato REM, la Fenice. Colta da un tepore sotto le piume che era sentore di sangue, inquietudine e vita.
L’inverno fuggì affrettato dal quel secondo davanzale e tornarono parole. Non più immagini, visioni al passato, ma ancora pa-ro-le.
Che fosse la giovane donna, che fosse un inconscio illusionista, questo poco importava, perché ciò che apprese l’udito le accellerò i battiti a tamburo: TUM TUM TUMTUMTUM TUM TUM TUMTUMTUMTUMTUMTUMTUM … che quasi implodeva nel suo guscio di fuoco, ma non si destò. Si mantenne intatta e scossa in quell’unico stato REM, la Fenice.



… mio sempre, mio comunque, anche se ne soffro l’odore.
Ci incontrammo che aveva un mese appena. Minuscolo, stava in una mano.
“…sono gli unici due maschi rimasti della cucciolata” mi disse l’allevatore. Uno bello, bellissimo. Dal bianco dominante e un arancio raro, qua e là. L’altro più comune, tricolore, mascherina assente da peculiarità, nella norma. Se ne stavano entrambi a scodinzolare sorrisi in una gabbia enorme, minuscoli. Orecchie a pendolo, muso allegro, fagotti di pelo. Li potevi (ac)cogliere in una mano.
Presi il primo. Quello bello, bellissimo. Ma non ci fu complicità nello sguardo, alcunché che mi portasse a desiderarlo. Presi l’altro. Ci annusammo: lui la misura del collo, io l’ingenuo del suo odore. Mi allungò un bacio, poi tanti. “E’ Whisky!” esclamai.

Santo cielo, che disastro sei stato! La rivoluzione francese in un appartamento.
Stragi di divani, cuscini, mobili. E sedie, spugne, calzini, giustiziati a morsi.
“Che bello… che carino… che bel pelo… com’è simpatico… mamma guarda, un beagle…!” All’inizio, era tutto un complimento.
“Eh, ma lei sa cosa si è presa in casa? …Tanti auguri! …Buona fortuna …se ne accorgerà!” In seguito, avvertimenti. E d’altra parte, avevano ragione: mi serviva fortuna, sì, ma soprattutto tanta, tanta pazienza con te.
Sessanta giorni di vita che hanno (s)travolto la mia. Io troppo pigra, io libera, io “non-mi-farò-MAI-un-cane-!”. Io, che non lo so quanto e come si ama un figlio. Sono una figlia, so quanto si ama una madre, un padre, un fratello. E te.
So le domande che mi faccio: “cosa guarda ora? gioca sempre con i bastoni? divora radici di malva? da quale parte punta il fiuto? per aria? nella terra umida? sul palmo di una carezza? … mi pensa?”
So la risposta che mi do: mi manchi.
So puntualmente dove mi manchi. Perché qui ci sono luoghi tutti tuoi: accanto alla stufa, la sinistra del divano, la coperta rossa, la signoratartaruga di gomma. Lanciata, ripresa, riportata. Centinaia di volte, centinaia di “bravo!” e un premio.

Intatta e scossa la Fenice, ancora in uno stato REM, ma sempre più viva nel suo guscio di fuoco. Sempre un po’ più…

L’ho capito a fine estate, sai, che non ce l’avrei fatta a riportarti a casa.
E’ stato un attimo, un cedimento su un bordo piscina. Mi affannavo a recuperare energie, le mie forme sopra quaranta chili, per me, anche per noi. Ma è stato proprio un attimo, sai, e sono crollata di fatica, di caldo, e dolore.
Non l’ho detto mai, ma lì ti ho pianto. Sotto un riparo d’ombra, mia madre vicina, i tuffi, le risate, i giochi in piscina. Lì mi è stato chiaro che quella dichiarazione alla vita, avrebbe salvato me, forse, ma non te.
Credevo si sarebbe invecchiati insieme. Tu con i tuoi acciacchi, io con le mie rughe, forse un compagno, dei figli. E ci saresti stato ogni momento.
E sarei rimasta stretta, incollata al tuo caro-odore fino alla fine. Fino-alla-fine.

Mi dicono che stai bene. Che fai branco con altri cani, scodinzoli ai richiami dolci, per un boccone, un saluto, una tenerezza.
Mi dicono sia bello laggiù, tra prati di margherite in viole. Oro di girasoli e vento.
Io gli dico che, se di tanto in tanto, contrai profondo un bagliore negli occhi, ti assenti e corri in fretta l’orizzonte è perché mi senti, da qualche parte, come quando a sera sussurravo : “ti amo più di tutto il mondo, Whisky. Più di tutto il mondo.”

giovedì 20 ottobre 2011

UN'UNICA FASE REM ( Parte II )


Venne dunque l’isola di ghiaccio senza notti né giorno. Il sogno e una sola fase Rem.
E stavolta più che immagini, alla Fenice arrivarono pa-ro-le. La giovane donna semiviva che pronunciava, forse scriveva,  parole in rima col sentimento.
Fosse una sorta di miraggio acustico, fosse vero, non importava, perché la Fenice a questo punto vacillò, ma senza perdere l’area del davanzale. Dopodiché il vermiglio, tutto, (ri)precipitò comodamente nella gola del sogno.

“Io, non volevo partire i giorni prima, e quel giorno là.

Pensavo: una a trentadue anni non può ancora andare in vacanza coi genitori.

Una che ha appena superato il borderline tra la vita e la morte, adesso, non ha bisogno di stordirsi con un altro viaggio. Vuole solo riappropriarsi della sua casa, delle sue cose, delle energie perse. Di sé.

Pensavo anche, ma questa era vanità, che piccola com’ero non avrei sopportato sguardi di sconosciuti, seppur sconosciuti, sui miei pochi chili in costume da bagno. Mi sarei sentita orrendamente fragile, più di quanto non lo fossi già.

Non credere sia stato facile radunare tutto il mio coraggio in quella valigia.

Sai, tornava spesso lo sguardo di mia madre i giorni prima della partenza. Era lucido d’ amore la volta che mi ha sorpresa senza abiti, dopo quei mesi a digiuno. Uno scricciolo. Un esserino che faceva la conta alle ossa davanti uno specchio, e piangeva:

-       “Lo capiranno tutti…”

-       “Son ben altre le cose di cui vergognarsi, ben altre. Forza!…” .

Ecco, ora posso dire in tutta onestà, che deve essere stato il ricordo di quegli occhi a decidermi davvero.

Siamo arrivati che era un sei di agosto. Roma-Briatico, quasi otto ore di viaggio: io, i miei, il mio cucciolo Joker. Portarlo con me è stato un sollievo. Non me la sarei sentita di lasciare un altro orfano in pensione. Bastava Whisky, il mio caro-odore, lontano da settimane ormai.

Ma anche questa, vedi, credevo sarebbe stata una di quelle storie da raccontarmi in lietofine.

Sono abbastanza certa di essere risultata da subito una grande snob. Ma ero sfinita e nervosa. “ Io nemmeno ci volevo venire qui!” continuavo a ribadire.

Ho sbraitato un po’ per avere una stanza come-dicevo-io! Una dove potessi godermi quindici giorni con Joker, senza ansie. Chiedevo quelle con il giardinetto. Alla fine, mi hanno dato la numero nove, il mio capriccio. E sono rimasta.

Chissà se è del tutto vero che ci sono persone capaci d’intendersi meglio senza parole…

Cerca di capire adesso: per te, per te che eri lì da quasi una stagione, ogni persona conosciuta e lasciata è stata la tua estate, un avanzo di te in viaggio verso luoghi altrui, nuove destinazioni.

Per me, l’estate, sei stato soltanto tu.

La certezza assoluta l’ho avuta quel diciotto di agosto. Era caldo, credo uno dei giorni più caldi e non ti ho visto più. Non sto a raccontarti di abbracci prima di quello. Non lo so fare, perché la verità è che non li ho mai accolti, mai sinceramente mi hanno aperto a dismisura il cuore. E non puoi nemmeno sapere il pianto che si è slacciato poi, come un nodo invincibile a chiunque.

Era caldo, e me ne stavo tra un buio, una valigia e qualcosa tra le più umane mai vissute, in quella numero nove.

Ricordo che la mattina dopo ho fatto una lunga passeggiata lì, nei dintorni. E inizialmente mi sono stupita di tanta bellezza. Mi sono stupita più che altro, di stupirmene soltanto quell’ultimo giorno! Ma poi, a ripensarci bene, ho smesso di colpo.

In psicologia lo chiamano banalmente “transfert” : un meccanismo per il quale ogni individuo tende a spostare schemi di sentimenti e pensieri relativi a una relazione significante su una persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale. Il processo è largamente inconscio, il soggetto non comprende ovvero da dove originino tali emozioni, sentimenti e pensieri… e bla bla bla… . Nel vocabolario del Sentimento, invece, a me piace la definizione “Amore”. O comunque, una delle sue tante voci. Anche se ammetto di essere stata a lungo analfabeta. 



Avevi due solitudini al posto degli occhi, uguali alle vele nel dipinto che ti ho lasciato: “…e poi ho preso questo perché ne ho sentito la bellezza, ho sentito che ti rappresentava”. Le ho pensate proprio così, appena le ho avvistate sul quel banco di tele a Tropea : due solitudini dentro ai tuoi occhi di lupo. Viaggiano vicine ma non s’incontrano. Somigliano a malinconie.

Lo so. Lo so, che i più non credono si possa amare qualcuno che si conosce a malapena, di cui si avvertono chiari “i moti dell’anima”, ma non si sono mai vissuti nel tempo. Nel tempo e sulla pelle.

Io dico che qui la discussione diventa innanzitutto semantica: dipende dal significato che si da all’oggetto o al soggetto in questione, e in questione prima e adesso c’è solo la mia emozione. Intimamente mia. Punto.

Non spaventarti ora, ti prego. Comprendo che faccia spavento un’investitura simile. E’ come diventare Re senza averlo desiderato né essere mai appartenuto ad alcuna stirpe regale. Ma il mio è un bene che non pretende. Perché anche questo ho imparato fare: non pre-ten-de-re.



C’è una Fenice tatuata sul mio polso sinistro. Per me, è una promessa alla vita. Una dichiarazione d’amore fatta incidere sulle tracce del dolore. Che mi sono causata, per il dolore.

“… in fondo che sia Lupo o Fenice, la signora Luna è sempre la stessa, da qualunque parte di cielo la si contempli”, ti ho scritto.

Non credere sia stato facile concentrare tutta la mia Nostalgia in una sola valigia, quel diciotto di agosto. Perché è stato quel giorno che l’ho riempita tra un buio e il caldo, nella numero nove.

Chissà se ho pensato di andarmene, se ho creduto mi fosse finita l’estate in anticipo.

Chissà perché in alcuni il sentimento resta così vivo e illeso e in altri non lascia nemmeno la sua ombra.

Chissà se ci si ritrova, io e te, da qualche parte nel tempo.”



Avvertì lo stesso gelo, lo stesso inverno che soffiava sull’isola, la Fenice.  E quelle parole : “…c’è una Fenice tatuata sul mio polso sinistro…  una fenice tatuata sul…”, quelle parole, creavano un frastuono che quasi riportava al risveglio.
Il secondo senso, qui, si chiamava : Umanità e Libertà. Umanità nei gesti e tra le righe.  Libertà di lasciar andare chi si ama. 

E tutto ciò era passato. Ma in continua evoluzione.

martedì 18 ottobre 2011

Un'unica fase Rem ( parte I )


Scese una stanchezza infinita sulle ali, la coda, il fuocoporpora tutto della Fenice, ancora lì, sul davanzale comodo. Avvertì i suoni intorno farsi dapprima len-ti, poi simili a rimbombi che ondeggiano strade, case, molecole d’aria. Ogni dimensione reale che i sensi potessero cogliere.
Sbiadì in verde terso la vista. Rallentò di fiato in sospiri calmi, il cuore. E cadde.
Cadde in un sogno che è passato, presente, futuro. Un’unica fase Rem.

Allora, (ri)visitò la bambina ai banchi  del mercato, il passo ribelle, le mani grandi, il foulard, e fate, dame pastello, un fuoco a gas.
Vide i suoi venticinque anni affannare piani di scale, un diciassette ottobre, inizio d’ autunno. Dita che intrecciano altre dita. Un palmo di burro tra quelli della ragazza, in ginocchio tra due distanze: un’anziana e la bambina sottosilenzio, per troppo tempo. Tutta un’infanzia ritrovata in quel gesto. Che fosse l’ultimo, poco importava.
E non più il mercato, le buste pesanti di limoni, pere, uva, lattuga. Ma la casa della nonna e ogni angolo di superficie in attesa: un sorriso incorniciato giovane, il legno antico, i piatti, animaletti di porcellana, soprammobili ricamati ad uncinetto e tazzine, mille e mille volte digitate all’aroma di caffè. Le fedi all’anulare sinistro. Poi, il respiro.
Respiro che accresce ogni spasmo del corpo, frantuma il mattino, singhiozza, chiede: a-ria… a-ria…a r i a…, si arrende. Per debolezza, perché così è la vita. Di nuovo, la nonna senza vita, la ragazza senza nonna. Ogni angolo di casa camminato da un sole pieno e di lei, ormai assente.
Il senso, fu il  primo ricordo di un Amore non amato in tempo. La prima intuizione di morte. Amore, morte e la poesia. Scoperta come un brusio d’anima istantaneo. E da quel giorno, un diciassette d’autunno, versi a mano sciolta sparpagliati dalla ragazza su fogli, quaderni, diari virtuali qualunque.


Erano gli anni delle bambole
di pezza da stringere al petto e cullare
in un lento, con te, che a sera
indovinavi la forma delle nuvole
già spiando stelle tra una fessura
e l’altra d’indaco appena scoperta,
che se ci ripenso era poesia anche quella.


Avevo le tue mani per sperare
in un angolo di terra più morbido,
benedetto da Dio, che le stagioni
non consumano o mutano piano,
perché non è l’addio a ferire
ma il non averti amato in tempo.


Erano, fossero sempre quegli anni,
dei tuoi occhi di cielo ombrati
da malinconia all’eco di un ricordo lontano,
troppo per non morirci dentro sognando…
E adesso tra i ricordi sono io a frugare,
sino a riviverti com’eri, sino al tuo ultimo respiro
che ancora conservo come la cosa più cara che ho.


Ecco, sì, proprio questi versi dedicò alla sua nonna, stagioni dopo. La nonna che scriveva poesie già molto prima di lei. Quelle, che non le lesse mai.

-       Che stai facendo?
-        Mmmmmm..? Nulla. Scrivevo un po'...
-       Guarda! Fuori piove.
-      Allora dai, vieni alla finestra che facciamo le nuvole col fiato.    Brava, così! Ed ora disegnamo… disegnamo le facce di Stanlio ed Olio, ti va?
-       Come? Così?
-       Bravissima! Così.
-       Guarda, guarda! Ma sta piovendo fortissimo…
-       Allora… adesso disegnamo un ombrello. Eccolo qua!
-       Mmmmmm…senti…
-       Sì…
-       Ma la gente senza ombrello si bagna?
-       …sì
-       E noi invece siamo fortunate perché ce ne stiamo al sicuro, qui?
-       …tu sei fortunata per tantissime ragioni. Io, perché tu sei qui.
-       Ti voglio bene, nonna!


E tutto ciò era un indizio di passato. Compiuto.






venerdì 14 ottobre 2011

Parte III


Viaggiarono settimane, mesi, tempo. Il fuocoporpora e la ragazza storpia di sorriso per chiunque. Per sé.
La casa, il cane, l’incenso da bruciare. Tutto a peso morto ormai, tutto un blabla di gente cara che andava, veniva, (di)sperava una ripresa.  

“Credo che i bambini vedano mostri nascosti nel buio, ma che i veri Mostri il buio ce l’abbiano nascosto dentro…” 

La casa, il cane, l’incenso da bruciare. Di- giu-no.
Circa quaranta chili di pelle ed ossa che faticano una strada, i giorni, le sere. La disperazione, che armeggia cieca una lametta contro il polso sinistro e una parola, u-na, che soltanto accennata può affannare l’aria: VI-TA, Vita..., divenire eco nel nulla.. Vita, vit… vi... e cadere. Tronca.
Tutto un peso morto ormai, tutto un blabla di gente cara che andava, veniva, sperava una ripresa.  

“… una vampira che da un bacio succhia-sangue all’uomo impotente?! Ma che dipinto angosciante quello! Di chi è? ”.

Sempre Munch.
In una stanza d’ascolto se ne stava la Donna, bella come una mamma. La mammabuona delle 16 e 45, civico 111, ogni mercoledì. Uno di quei riferimenti puntati spesso, un bivio a marcia parallela: piede zoppo da una parte; passo scalzo, scomposto, libero, dall’altra.
Eros e Thanatos, Resa o Vita. Blabla di gente cara. E fa-me.
Allora, la Fenice, infiammò spedita la distanza fino al secondo davanzale. Accomodò la vista su due poltrone a specchio: la donna Freudiana, la ragazza affamata. E si riposò. 

“ Credo si possa gioire per qualcuno se dice di aver perso dieci chili ma non nel caso in cui prima ne pesava appena cinquanta…”

All’incirca quaranta chili di pelle ed ossa su una poltrona a specchio che svuotavano l’anima in parti mal distribuite: un po’ alla gente cara, un po’ alla donna Freudiana. A se stessi, meno.

… credo ci siano cose che tanto più si rischiano più si negano. Credo che pensarsi in terza persona alleggerisca se si è un tutt’uno con la morte. Se non si è.

E fu un abbraccio, il primo, tra la mammabuona, la ragazza affamata e la morte.
Forse l’ incipit a quel senso di realtà che andava sfumando tratti perché lì, nell’abbraccio, c’erano parole, insopportabili quanto il Dolore: “ E’ tutto VE-RO. Sei TU, sei TU che MUO-RI!”.
Uscì come un lamento dal civico 111. Una donna giovane e semiviva. I suoi quaranta chili in strada che faticano la verità, come il panico che devastò Munch un tramonto qualunque, ad Ekeberg.
L’urlo, smisuratamente ( r )accolto fin sotto la pelle, le ossa. Nella carne.

 “ Solo pochi giorni dopo ho realizzato dav-ve-ro che la vita, la MIA, era frantumi: la casa, il lavoro, gli studi abbandonati. Il mio cane ancora in una pensione.
Non me lo potevo più permettere. Ho deciso che ogni cosa posseduta e adorata doveva tornare insieme a Me Stessa, che si era persa troppo a lungo, tanto lontano.
Passeggiavo sul pontile di Ostia un sabato sera, e mi meravigliavano le luci del porto, la penombra del mare, la spiaggia sola. Tutta quella gente che si abbracciava, salutava, sorrideva, strillava. Ragazzi che si amavano. E ho sentito come una ferita dolce dentro. Ho sentito che non volevo più morire. Che valesse la pena continuare a Vivere anche una frazione d’ istante per gioirmi Piena, così. Ho compreso, per una volta e tutte, di essere Fortunata, che c’era un Dio che mi amava come potevo, dovevo farlo io. Io con me.  
Ho scelto. E mi sono stretta alla Vita.”

Ancora un Dalì. Un sole (ri)nascente tra due labbra d’uovo. L’utero che sgrana Amore, ogni suo singolo elemento, e Reale. 

“…credo che l’odore della salvia sia tra i più buoni mai sentiti. Come quello delle cosce di mia madre quando venni al mondo, di cui non ho memoria.”




mercoledì 12 ottobre 2011

PARTE II


C’era rabbia, rifiuto, stordimento. Seduzione. Un piangere con gli stessi occhi, superficie contro superficie d’iride, rovistando a mani nude l’origine precisa della desolazione, di tutte le desolazioni prima, non solo quella. Le loro.
Era intendere ogni singola rivoluzione dal bassoventre. Strofinare la pelle fino alle ossa, a ciò che non si è mai osato toccare. L’affinità del primo incontrarsi: non di abiti, maniere, atteggiamenti. Ma di uva che marcisce al suolo, l’orbitare di mosche impazzito.
Sentì. Alla fine, la ragazza sentì bene tutto il Panico che devastò Munch in un tramonto-sangue come tanti, ad Ekeberg. Quell’urlo rimasto vago all’udito, il tempo di una vita giovane e in fuga. Soltanto la sua.

Allora, ascoltò un respiro di morte avanzare. Senza muovere un muscolo, un balzo.
Non più dall’ingresso roccioso. Non più dal parco, polvere, ortiche ma dall’anima della ragazza senza nonna, esattamente un tutt’uno. Un impasto deforme: l’Anima e la Morte.
Fece quasi per distendere il suo ventaglio fuocoporpora lontano da lì, la Fenice. Tuttavia, restò. Gonfiò il petto in una boccata d’aria piena, come chi sta per annegare. E planò, silenziosa,  gli stessi sentieri di lei. Stesso sole che scansa mattine, stesse zavorre di vuoto a comprimere le sere.
Nella sua casa, la ragazza, non aveva più incenso da bruciare, cane da allevare di imperativi e carezze, o un sorriso semplice. Per chiunque. Per sé.

sono crollata ( la data la conosco perfettamente ) l’ 11 di maggio. Avrei troppo da dire riguardo ai motivi, ai giochi perversi che la mente crea a volte per lasciarti scivolare giù, sempre più giù. Tutti i miei fallimenti, di anni, caduti sulle spalle in un tonfo solo. Massicci, insostenibili. Ogni suono di me che non ho voluto ascoltare. Una vita giovane e intera passata a fuggire, a stordire il Dolore. Ad evitare essenzialmente di confessarmi l’handicap più grande. L’incapacità di abbandonarmi all’Amore, di Amarmi, Crescere, Differenziarmi… di essere ME. Ciascuno di questi limiti, piccolezze, (ri)conosciute dopo tanto proteggermi, in un richiamo disperato, accolto, rifiutato. L’ombra dalla silhouette snella, l’altezza fiera. Il ragazzo con seguito di cani sciolti, tra la polvere, le ortiche. Le mie braccia.
Ecco, da un 11 di maggio  ho smesso di Vivere ( se ho vissuto mai ), di ridere, di badare a me, al mio caro-cane, al mio lavoro…  a qualsiasi cosa avesse importanza prima e credevo l’avesse sempre.
Ho trascorso giorni in una casa buia senza più muovere un respiro, uno sguardo, privandomi del cibo, a poco a poco. Sostenuta di continuo dai miei genitori, parenti e qualche amico coraggioso che non temeva il mio disagio. E in quel periodo ho purtroppo compiuto gesti contro la mia persona che non hanno fatto altro, giustamente, che allarmare ancora di più le persone a me care.
Potevo continuare a “compiacermi” di quello stato: sempre accudita, sorvegliata, confortata ( regredendo in realtà ) oppure decidere, come ho fatto, di portarmi in un luogo dove altri mi potessero curare senza più ingombrare tanto pesantemente le vite attorno alla mia, riprendendomela.
Sono rimasta in un clinica psichiatrica sei giorni. Di più non ho resistito.
Per quanto fosse stata mia volontà essere lì, per quanto fossi informata sugli effetti degli psicofarmaci ( mai presi fino a quel momento ) non credevo esistesse sul serio quel mondo artificiale  scoperto con amara meraviglia e di cui per tre giorni ho fatto parte.
A parte il primo, di giorno, in cui dottori, dottoresse, tirocinanti intenti a preparare tesi sulla Depressione ( … quella brutta parola ) non hanno fatto altro che ospitarmi da una stanza all’altra ascoltando, considerando, scandagliando una (in)coscienza che, alla fine, avevo già rovistato da me ( in buona parte ), dal secondo in poi ero un perfetto e orrendo zombie, imbottita di psicofarmaci tramite flebo, a mattina e a sera, senza più nessuno a rivolgermi un: “come ti senti?” “come stai?”.
Ah! come si Sente Profondamente l’importanza di un’attenzione così in simili circostanze.
Per ben tre giorni, dicevo, passavo dal letto ( dormivo ), al bar della clinica, al giardino, senza più un’anima. Nemmeno con  la mia compagna di stanza riuscivo a scambiare due parole. Nemmeno con mia ma-dre, con cui mi esprimevo al telefono, sì, ma a mo-no-sil-la-bi.
Ebbene, al quarto giorno, effetto dello psicofarmaco che si stava assestando o meno, ho cominciato a riprendere una certa lucidità.
Vagavo per i corridoi, tra le stanze, il giardino, e notavo solo gente senza sguardo, senza quasi Identità, Personalità. Annullati. Finiti. Solo qualcuno a volte era preso da parte da uomini e donne col camice bianco, per raccontarsi.  La maggior parte di loro, però, se ne restava zitta e sola in un angolo, a fissare vuoti.
E’ stato allora che ho cominciato ad avvicinarmi cautamente ad alcuni/e per parlare, chiedere da quanto fossero lì. Da quanto, soprattutto, qualcuno si occupasse di loro. Non solo tramite aghi ficcati in vena o due pasticche, ma U- MA- NA- MEN- TE, con il dialogo, la comprensione, gesti di carità. Le risposte erano più o meno le stesse. Chi da più o meno tempo era stato abbandonato al farmaco, senza più potersi esprimere, tirar fuori grazie al sostegno di chi avrebbe dovuto: emozioni, pensieri, stati d’animo… o più semplicemente: la loro Storia.
Forse perché quando qualcosa brucia la devo tirar fuori spesso violentemente, senza troppo sondare le conseguenze, tanto più ne sono convinta, ma ho cominciato da quel giorno a tormentare tutti ( SignoraDirettrice del reparto compresa ) per farmi mandare via da lì. Perché le Persone non possono essere trattate da non-persone per non creare problemi, evitare responsabilità nel caso di gesti insani. Perché la Dignità è l’unica cosa che prima di ogni altra in un posto come quello si dovrebbe recuperare, e non perdere. Ma questo, QUE-STO, non lo si può fare con un farmaco che ti azzittisce la coscienza.
Non sono una sprovveduta, so molto bene che alcuni casi gravi come la schizofrenia, depressione bipolare etc etc… necessitano sicuramente di cure farmacologiche, ma il Potere della Comunicazione, del Contatto Umano, della Comprensione, dello svuotamento del Dolore tramite una elaborazione lenta ma consapevole, non hanno prezzo.
Volevano tenermi lì altre tre settimane. Come ho già detto sono riuscita a farmi lasciare libera dopo sei giorni.”

Era un Dalì. Una “persistenza-della-memoria” contro ogni resistere ma di nessun elemento, Surreale.


martedì 11 ottobre 2011

IL MUNCH ( Parte I )



…schivò a striscio d’ala un’antenna, ferendosi. Dolcemente. Portava con sé troppe fatiche, troppi viaggi e ricordi. Rinunce e addii, insieme alle cose ritrovate. Il fuocoporpora quasi fiaccava sotto il sole malato, lo smog d’uomo. Ma non era tempo di soste quello.
Con uno sforzo risoluto raddrizzò la rotta, rinvigorì la scia fiammante tra materassi di nuvole galleggianti e blu. Indagò quartieri: bassi nei lussi, alti di mediocrità, ma mai più osceni degli uomini stessi che l’abitavano. Rovistò dall’alto ruderi di anfiteatri, acquedotti, colonnati e vie solcate da popoli gloriosamente antichi. Forse meno dannosi, seppur corrotti.
Le mutò in verde-acuto la vista proprio sopra una strada presso il parco trasandato, ruggine. Pascolato da cani e padroni, traffici di pecora e clochard, abbandonati su cucce in terra-cartone.
Li riconobbe. Riconobbe la strada e il parco. Dolori prima, vita fa. E qui, sull’ingresso roccioso poco prima della desolazione, si (ri)posò.
Sentì una specie d’ombra avanzare, senza muovere un fiato, un balzo. Un’espressione di morte dalla silhouette snella, l’altezza fiera. Quel giovane, lì, con seguito di cani sciolti, brancolava per polvere e ortiche a sperdersi nel parco. Sapeva meglio delle altre, stavolta, cos’era. Era un Munch, dall’urlo forte, potente, capace di stracciare la tela. Oltre che l’anima.
Per la prima volta vibrò sinistra dalla coda al becco, nelle viscere e fin dove nemmeno lei sapeva.
Si fermò. Il giovane si arrestò a centimetri di fiato da una ragazza e il suo cane, il sempre-caro-odore. Le parve proprio quella senza nonna, solo dai dettagli in volto più cresciuti, ma non ne aveva certezza.
Vide il ragazzo accarezzare il cane di lei, familiare, mentre gli altri braccavano chi una palla, chi un bastone o una suola malconcia. Ciò che la sterpaglia offriva.
Traspariva indubbia un’affinità tra i due. Non di abiti, maniere, atteggiamenti. Era per lo più qualcosa dal sapore di uva, che dove atterra è sputo di mosche a orbitare l’aria marcia. E’ tormento.
Allora, vide quell’istante farsi mesi di una stagione addietro. Li vide incontrarsi leggeri nelle mezzemaniche di luglio. Ne udì il fischio ai cani, i passi avvicinarsi e lasciarsi lo scandire di un saluto, di un come-va? Ne ascoltò simposi sulla poesia, il cinema, passioni preraffaellite all’Ofelia di Millais o surreali, impronta Magritte.
Adocchiò il ragazzo stordire a sorsate d’alcol le sere più amare, e cercarla. Per coccolarsi solitudini, sbatterle in faccia vuoti, i suoi. I loro. Una sera dopo altre. Sempre con una smorfia al dolore: stanarla, annegare nel sollievo fino al mattino, abbandonarla.

Dietro un’opera d’arte c’è l’uomo. E l’uomo non è l’artista. Solo Artista. L’uomo è spesso inquietudine, disperazione, miseria di fronte ad altri uomini. A se stesso. Ed era quella debolezza che in realtà l’artista inganna nell’eccellere di un’opera (delirando Fama) che la ragazza accoglieva, poi rifiutava.
Si annuvolò. Così, vide la ragazza annuvolarsi, una sera dopo altre.


lunedì 10 ottobre 2011

NICCOLò

...quando e se leggi qui, per favore contattami tramite e-mail. Io ho perso i tuoi riferimenti: sia telefonici che telematici.

Ti ringrazio molto
Sara